Gp Cottini

Questo sito intende presentare la personalità e le opere del filosofo Giampaolo Cottini, a partire da una selezione ragionata di articoli curati per il quotidiano “La Prealpina“.

Sull’invidia

Fuori del Coro | n. 43-2000

L’aumento del tasso di litigiosità e di conflittualità sociale è sotto gli occhi di tutti: assistiamo quotidianamente all’imbarbarimento dei rapporti non solo nella contesa politica, ma anche nelle relazioni normali tra colleghi di lavoro ed anche tra persone amiche. Le cause possono essere molteplici: la complessità delle situazioni, la rapidità dei mutamenti, lo svilupparsi di un senso di emulazione che costringe sempre a misurarsi con gli altri per emergere o per sopravvivere. Sono cose note, ma colpisce che un intellettuale attento come Francesco Alberoni abbia sottolineato recentemente, tra le cause della disgregazione sociale, il peso dell’invidia come fattore determinante di rottura rispetto ad una società della solidarietà. Analizzando il nesso tra ammirazione ed invidia, Alberoni nota che l’invidioso è colui che odia l’altro perché, vedendolo migliore o più dotato (o anche semplicemente più fortunato), lo considera come un potenziale nemico da eliminare in quanto minaccia la sua personale affermazione. Rispetto all’ammirazione, che suscita un legame affettivo positivo, l’invidia crea recriminazione ed ostilità perché il successo dell’altro viene attribuito ad una sorta di ingiustizia che impedisce di godere tutti allo stesso modo. Se ad uno le cose vanno bene, sembra quasi che ciò tolga qualcosa all’altro, ed anche il po’ di bene che potrebbe esserci per qualcuno diventa obiezione. Da qui nascono la mormorazione, la calunnia, l’ingiuria, gli attacchi personali che costellano la nostra vita quotidiana.

Il Cardinale Bellarmino definiva efficacemente l’invidia come un peccato (in termini teologici si tratta proprio di un vizio capitale) “per il quale l’uomo ha dispiacere del bene d’altri, perché gli pare che diminuisca la grandezza propria”, con la conseguenza persino di desiderare il male dell’avversario per ristabilire una sorta di eguaglianza. Infatti, l’invidia tende ad autogiustificarsi in nome dell’egualitarismo: tutti dobbiamo avere le stesse cose (se uno è più ricco o più dotato questo appare come un’ingiustizia), ed allora piuttosto è meglio stare tutti peggio, pur di evitare che qualcuno emerga o si affermi per le sue doti naturali. Se l’altro è più bravo deve essere ricondotto nella media, se uno ha più successo bisogna fermarlo, chi agisce meglio per il bene di tutti suscita la reazione di chi voleva fare lui quella cosa.

L’esito è un livellamento verso il basso che nasce dalla tristezza per il bene che non viene da noi ma dagli altri: invece di gioire con magnanimità del fatto che qualcuno sia migliore di noi, ci intristiamo nella considerazione di quello che personalmente ci manca, finendo a rinunciare anche alla giusta emulazione che porterebbe tutti a desiderare sempre un migliore livello complessivo di civiltà. Da questa frustrazione invidiosa nasce la lotta di classe, si sviluppa la conflittualità tra colleghi, si arriva a giustificare la legge della giungla come competizione spinta sino all’odio e al rifiuto di qualsiasi cavalleresco confronto.

Ma perché non si riesce a gioire magnanimamente del bene da qualunque parte esso venga? Non siamo ingenui! L’invidia nasce proprio dall’ingiustizia, cioè dal non  rispetto delle diversità tra gli uomini e dal mancato riconoscimento di un bene comune così universale da richiedere che sia realizzato in forma sinfonica, senza perciò togliere le differenze tra gli uomini. L’invidia si può superare solo se si ama il destino dell’intera umanità più ancora del proprio legittimo interesse particolare, anche perché l’invidia logora, mentre la magnanimità consente alla vita di respirare. Una cosa è comunque certa: se sapessimo godere del bene che ci capita e ringraziare per quanto abbiamo, non avremmo più bisogno di essere invidiosi!