Gp Cottini

Questo sito intende presentare la personalità e le opere del filosofo Giampaolo Cottini, a partire da una selezione ragionata di articoli curati per il quotidiano “La Prealpina“.

Quella violenza a Praga

Fuori del Coro | n. 33-1998

Il 21 agosto 1968 i carri armati del Patto di Varsavia invadevano la Cecoslovacchia, ponendo fine alla promettente “primavera di Praga” che aveva tentato di costruire un socialismo “dal volto umano”. A dodici anni dalla repressione della rivolta di Budapest e dodici anni prima dell’intervento in Polonia, i carri armati imponevano il loro ordine, spegnendo le aspirazioni di libertà di un popolo e confermando il metodo della violenza calcolata ed inesorabile di quello che in seguito Ronald Reagan avrebbe definito “l’impero del male”. Chi ricorda personalmente quell’evento sente nuovamente il brivido di sgomento e di ribellione che esso suscitò in tutto il mondo civile: la violenza si manifestò, infatti, in tutta la sua brutalità, schiacciando con l’arroganza delle armi ogni più nobile attesa di quella libertà che cercava di farsi strada dentro le maglie del regime comunista. Un’emozione vivissima provocò anche il sacrificio del giovane Jan Palach, che si bruciò vivo nella piazza centrale di Praga, per affermare in modo estremo il valore assoluto della libertà, contro ogni pretesa violenta di togliere all’uomo la possibilità di essere artefice e protagonista del proprio destino.

Tutto questo avvenne però senza che le grandi potenze intervenissero, quasi in ossequio alla divisione del mondo sancita da Yalta che legittimava la spartizione delle aree di influenza del pianeta. Il potere comunista, guidato dall’Unione Sovietica, aveva così affermato nei fatti il suo diritto a governare tutte le nazioni incluse nella sua orbita, suscitando certamente lo sdegno dell’opinione pubblica mondiale, ma al tempo stesso dimostrando l’impotenza a combattere l’ingiustizia senza provocare un conflitto di proporzioni mondiali.

Oggi il mondo è assai diverso: il comunismo come sistema e blocco politico è finito, i Paesi dell’Est chiedono con insistenza di entrare a far parte del modello capitalistico, Praga è un città occidentalizzata meta turistica aperta al grande pubblico, sono scomparsi i movimenti clandestini, e il miracolo della libertà sembra realizzato grazie alla figura carismatica di Waclav Havel simbolo della resistenza alla violenza di quei carri armati del ’68.

Ma se i mutamenti seguiti all’Ottantanove hanno abbattuto la cortina di ferro e i muri simbolici e reali che spaccavano in due il mondo, nuove fratture incrinano il destino dell’umanità e non si può certo dire che sia superata la violenza politica, ideologica, culturale, economica, sociale con cui il potere si impone sulla libertà delle persone e dei popoli. Non si tratta infatti di una logica tipica solo di un determinato periodo storico: il potere è in qualche modo sempre legato alla violenza ogni volta che abbandona il suo compito di garantire la permanenza del bene comune per diventare unicamente strumento di difesa di interessi di parte. Il potere ha bisogno per reggersi di omologazione, di negare ogni dissenso che ne metta in discussione l’origine e le finalità; perciò il consenso deve essere ottenuto con ogni mezzo, anche a prezzo della repressione, perché il potere teme sommamente la libertà in quanto scaturisce da una sorgente creativa totalmente imprevedibile. In tal senso la violenza non è solo quella dei carri armati, ma è anche quella esercitata, con le più subdole e sofisticate forme di intimidazione, da un potere non solamente politico (ma anche giudiziario, economico, culturale, mediatico), che uccide la libertà costringendola dentro lo schema del più forte.

Per questo il ricordo di Praga è un invito a ritrovare le condizioni per realizzare un potere “amico” della persona, che non pretenda di omologarla, ma che valorizzi la verità di quanto l’uomo sa creare per sé e nella relazione con gli altri.

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