Pessimismo all’italiana
Fuori del Coro | n. 05-2005
I sondaggi d’opinione valgono quel che valgono e sono sempre manipolabili ed interpretabili, ma il recente rapporto Eurispes dice qualcosa che fa pensare, ben al di là delle possibili strumentalizzazioni politiche di parte: l’Italia è preoccupata e si avvia verso un pessimismo sul futuro, che non sembra legato solo alle preoccupazioni per la perdita di potere d’acquisto dei salari o alla sfiducia verso il Governo, ma va a toccare anche la stima per le istituzioni nel loro complesso e soprattutto la fiducia nella possibilità di ripresa. Un’Italia depressa, insomma, che pare aver perso quella creatività che la rendeva “terra di santi, navigatori ed eroi”, un’Italia senza speranze e prospettive che non crede nella rinascita, che sembra messa al palo da un sentimento di inutilità dell’impegno o di rassegnata indifferenza per l’avvenire in cui non si vedono spiragli di novità di intrapresa. Sarà vero? La risposta non può essere nei dati statistici, ma il rapporto dell’Eurispes qualche interrogativo serio lo pone.
Anzitutto c’è da chiedersi: a cosa educhiamo le giovani generazioni? Perché è nei giovani che risiede naturalmente la speranza nell’avvenire e se disegniamo per loro un orizzonte fosco e senza aperture è chiaro che la vita di tutti è destinata a cristallizzarsi al massimo nella difesa del già “posseduto”. La tradizione insegna invece (e basterebbe pensare alla Storia del dopoguerra, quando l’Italia è rinata attorno alla speranza della libertà e della ricostruzione) che il futuro sta nella certezza del passato in quanto da esso scaturiscono valori sperimentabili nell’oggi. Senza educare a delle certezze non c’è futuro, ma la certezza non può stare in un’ideologia (cioè nel sistema di pensieri costruito dagli adulti) ma solo in un’esperienza che valorizzi tutto il desiderio positivo dei giovani guidandolo a risposte vere. Oggi sembra, invece, che degli adulti rassegnati trasmettano ai giovani solo regole di comportamento o obiettivi da raggiungere, non ideali alti e nobili per cui spendersi. Ma dinanzi ad un mondo che cambia fuori di noi più velocemente di quanto siamo capaci di cambiare noi, le regole servono a poco: occorre far rinascere il desiderio di una libertà capace di accettare la sfida del cambiamento e ricreare luoghi di relazioni significative per non essere schiacciati dalla solitudine e dalla perdita di identità.
Ma bisogna interrogarsi anche su quale percezione di noi stessi mettiamo in moto in risposta alle provocazioni delle congiunture storiche, e forse scopriremo che la prima mossa è la scontatezza e non lo stupore, la lamentazione al posto della virile accettazione delle difficoltà, la nostalgia in luogo dello spirito d’avventura dinanzi ai cambiamenti, il conformismo invece che una cultura della creatività, ma soprattutto il vuoto invece della speranza. Tutto ciò incide sull’atteggiamento quotidiano di fronte all’esistenza ben più dell’incertezza economica e della sfiducia verso le istituzioni, perché nasce dalla mancanza di una cultura certa della propria tradizione e della propria radice popolare e religiosa.
Per questo non si tratta di sapere se l’Eurispes dà una fotografia compiuta degli italiani, ma di raccogliere la sfida per non cadere in un pessimismo che sarebbe tanto sterile quanto un vacuo ottimismo di maniera. La speranza non ha nulla a che fare con un sentimento vago, ma trova la sua ragione se vive di un’esperienza capace di rilanciare nella realtà con uno sguardo positivo. La rassegnazione e la staticità si vincono se si accoglie la ricerca di Verità che ognuno ha in sé e se si cerca di realizzare quel desiderio originario di mettersi insieme per costruire una società che non si limiti a difendere esclusivamente degli interessi consolidati.