L’Italia delle culture
Fuori del Coro | n. 15-2006
Il convulso momento post-elettorale sembra preoccuparsi solo della spartizione delle poltrone e dei nuovi assetti di potere, lasciando in ombra un disegno di più ampio respiro culturale che possa guidare l’Italia nei prossimi anni: la ragione è la difficoltà di leggere ed interpretare le vere domande degli Italiani componendole in un tessuto di valori condivisi, cui corrisponde la debolezza degli intellettuali ormai ben lontani dall’essere “organici” al vissuto della gente (si pensi alla divaricazione tra i giudizi espressi dall’intellighenzia giornalistica e i risultati elettorali). Il vuoto è dunque essenzialmente culturale e non è colmato dalle tre culture (laico-liberale, socialista e cattolica) cui l’Italia faceva tradizionalmente riferimento.
È in stallo la cultura liberale, spesso ancorata ad un’immagine troppo individualistica del soggetto e delle sue relazioni, e poco attrezzata a fondare un senso comunionale della società al di là di una filantropica solidarietà; è in crisi di identità la cultura socialista, schiacciata tra i radicalismi laicisti e nichilisti delle varie “rose nel pugno” e lo statalismo di un comunismo di ritorno che vorrebbe controllare tutto in modo centralistico senza tener conto del principio di sussidiarietà; rischia poca incidenza la cultura cattolica che, pur vivace dal punto di vista teorico, non sempre riesce ad esprimere con compattezza proposte condivise, finendo ad essere relegata nella “riserva” delle questioni etiche senza riuscire ad incidere sugli interessi reali. Rispetto alle altre due, il pregio della cultura cattolica è però di prendere le mosse da una tradizione radicata in una precisa antropologia, cioè una concezione specifica dell’uomo, che ne sottolinea sia l’irripetibile originalità personale (mai omologabile da nessun potere statale) sia la dimensione comunitaria che ne giustifica la prospettiva solidaristica di operatività verso i bisogni reali della gente. Dunque una cultura che si radica in un’esperienza già in atto e che non nasce da circuiti accademici o da centri di potere ideologico, una cultura pronta a dare visibilità alla vita del popolo dei credenti che non va inventato ma esiste già.
Per questo i cattolici non possono ora esimersi dalla responsabilità di “esserci” con la loro faccia, anzi sono chiamati a dare dei giudizi sulle grandi esperienze in cui si gioca il destino dell’uomo: il nascere, il morire, il soffrire, l’educare, il lavorare, il fare famiglia, l’impegnarsi per i più deboli, soprattutto l’essere liberi di esprimere la propria appartenenza alla Chiesa per viverla senza sentirsi sminuiti dal laicismo strisciante, ben sapendo che la cultura non è ideologia, neppure moralismo dei buoni principi, ma è la modalità con cui una vita reale si rende comunicabile in opere capaci di aggregare persone ed offrire risposte credibili alla domanda di felicità che accompagna tutti.
L’Italia ha bisogno oggi non di un’astratta cultura accademica incatenata al carro del potere di turno, ma dell’impeto di comunicazione del bene che nasce dalla vita stessa; quell’impeto che muove ad esempio un padre ed una madre ad educare i figli, o che fa desiderare agli anziani di essere utili alle nuove generazioni comunicando la propria esperienza di valori vissuti, o che spinge la Chiesa ad indicare luoghi e momenti in cui il popolo possa ancora ritrovarsi e riconoscersi.
Occorre allora riscoprire il senso della cultura come evento che esprime la sensibilità autentica della gente, investendo risorse ma soprattutto favorendo occasioni per tornare a parlare del destino delle persone, al di là degli schieramenti ideologici contrapposti. Forse proprio da qui riparte la responsabilità dei politici che intendono davvero servire il popolo.