L’imperativo della speranza
Fuori del Coro | n. 42-1999
“L’uomo non può vivere senza speranza: la sua vita sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile”: con queste parole si apre il messaggio conclusivo del recente Sinodo dei Vescovi europei che si è svolto a Roma. Una parola forte, capace di andare al cuore della crisi della civiltà occidentale, che se tanti passi ha fatto nella direzione del progresso economico e scientifico, stenta però a trovare le ragioni di una speranza per il suo futuro.
È la fine del millennio e perciò tempo di bilanci; per questo la riflessione sulla speranza è d’obbligo. Ma cos’è la speranza? Sarebbe ingenuo credere che la speranza sia la semplice probabilità che le nostre aspettative si realizzino nel futuro, come si pensa in età giovanile quando tutto è ancora aperto e disponibile all’avventura della vita (si usa dire “è un giovane di belle speranze”). Ma, come si sa, il futuro non ci appartiene, per cui se la speranza si identificasse con le aspettative, tutto potrebbe anche rivelarsi vano. Perciò essendo labile sperare solo nella buona riuscita dei propri progetti, si preferisce cercare speranza nel confronto con il passato: se la storia ci dice che qualche speranza si è già avverata, allora si può attenderne il ripetersi nel futuro. E così, proiettando sul futuro la speranza di quanto già accaduto, sembra più facile riporre l’attesa di un miglioramento che confermi l’esperienza già fatta. Ma anche questo è equivoco: se guardiamo al nostro secolo di enormi tragedie, come si può pensare che il nuovo millennio possa essere migliore, visto che i grandi problemi dell’umanità sono ben lontani dall’essere stati positivamente risolti? Il passato in sé, dunque, non è sufficiente ad assicurare nulla in termini di speranza.
Ma allora la speranza è una virtù facoltativa, buona solo per inguaribili ottimisti? Non pare proprio, almeno stando alle parole dei vescovi europei, che ne fanno invece una questione di vita o di morte, configurando il dovere della speranza nei termini di un imperativo categorico. Infatti, senza la speranza non si può nemmeno iniziare a vivere, non avrebbe senso alzarsi al mattino per affrontare una giornata di lavoro o di studio, non avrebbe alcuna utilità ciò che accade. La speranza si identifica, invece, con la certezza di qualcosa che assicuri stabilità e durata alle opere e ai giorni, restituendo ad ogni cosa il suo vero significato e la sua giusta prospettiva. Ritorna alla mente quanto diceva Peguy: “bisogna aver ricevuto una grande grazia per poter sperare”, nel senso che la virtù della speranza non può radicarsi in un’utopia o in sogni irrealizzabili, ma può partire solo da un avvenimento certo e definitivo, visibile attraverso segni tangibili di un’umanità rinnovata da un avvenimento di Bene che illumina tutto.
Perciò è ragionevole sperare se ci sono degli uomini e delle donne che, vivendo la vita per un ideale grande, la portano a compimento. È il caso dei Santi, che la Chiesa addita a modelli di umanità riuscita, anche nel nostro secolo che, accanto alla violenza delle ideologie e agli stermini, ha conosciuto personalità della statura di Padre Kolbe o Madre Teresa. Si tratta di figure che hanno luminosamente dimostrato come si può vivere nel dono gratuito di sé perché certi della salvezza di Dio; al punto che nemmeno la morte (che è l’obiezione più radicale) ha potuto uccidere la certezza.
Bisogna allora andare a caccia di “segni di speranza”, cercandoli in esempi storici, come ci verrà ricordato tra pochi giorni dal confronto della solennità di Ognissanti con la commemorazione dei defunti. La sfida è che la vita vince la morte: allora tutto si può attendere e desiderare, e la speranza diventa per tutti l’imperativo dell’esistenza.