Gp Cottini

Questo sito intende presentare la personalità e le opere del filosofo Giampaolo Cottini, a partire da una selezione ragionata di articoli curati per il quotidiano “La Prealpina“.

L’arte di educare

Fuori del Coro | n. 09-1995

La settimana scorsa i giornali hanno dato una notizia che forse ai più è quasi sfuggita. Un giudice, sentenziando circa l’episodio di un ragazzo che a scuola aveva danneggiato un compagno colpendolo all’occhio, ha condannato in solido i genitori del colpevole a risarcire i danni, con la motivazione che la cattiva educazione impartita al figlio minorenne era da considerare la vera causa dell’incidente. La sentenza è interessante, perché sembra configurare il reato di omissione di educazione, riconoscendo una responsabilità sia della famiglia che della scuola per quanto riguarda l’abbandono educativo in cui molti ragazzi sono lasciati. Un’analoga carenza educativa, o almeno una debolezza di messaggi positivi su cui impostare l’esistenza, è forse anche all’origine dei molti suicidi giovanili recentemente accaduti. Ora, senza voler scaricare su genitori e scuola tutte le colpe dell’attuale silenzio educativo, vale comunque la pena di interrogarsi sul significato dell’educare.

Mi piace partire da questa definizione: “l’educazione è il complesso degli atti mediante i quali i genitori rendono ragione al figlio della promessa che gli hanno fatto mettendolo al mondo”. Ciò significa che l’atto educativo, ben lungi dall’essere un semplice insegnamento di buone maniere o di precetti e divieti psicologici o morali, è l’atto originario attraverso cui l’adulto accompagna l’educando dentro la realtà, indicandogli le ragioni della vita. Educare in questo senso è perciò veramente la continuazione del gesto con cui i genitori hanno conferito al figlio l’esistenza, e rappresenta la fatica della continua generazione della persona verso la sua piena autorealizzazione.

E qui diventa chiara la responsabilità dell’adulto nel processo educativo: se l’educazione non è innanzitutto fare prediche o imporre modelli, ma autentica comunicazione delle ragioni che rendono degna e vivibile la vita, c’è da chiedersi quali messaggi positivi gli adulti sappiano trasmettere, quali ideali e modelli di vita propongano, quale grandezza di orizzonti siano capaci di spalancare alle giovani generazioni. La nostra cultura tendenzialmente non ha stima della vita, e finisce ad offrire come riferimento o il relativismo (la convinzione che qualunque azione sia accettabile per il solo fatto che è stata scelta), o peggio il nichilismo (la negazione completa di una verità positiva che corrisponda alle vere esigenze della natura umana). Ciò rende impossibile formulare qualunque messaggio educativo, perché induce nel giovane quella sottile forma di scetticismo che gli fa ritenere inutile ogni suo desiderio di pienezza, vanificando sul nascere quell’ansia di trovare risposta alla promessa insita nell’atto stesso di vivere. Così i giovani ricevono anche troppo in termini di cose, di emozioni, di informazioni, di suggestioni, persino di sogni, ma rimangono poveri di verità cui consegnare la propria intelligenza e di ideali cui dedicare la propria libertà.

Educare significa invece valorizzare l’attesa di un ideale grande su cui costruire la vita, aiutando il giovane a verificare un cammino affascinante capace di rispondere al suo indomabile bisogno di salvezza. Come diceva Romano Guardini, “la prima questione in cui l’educatore aiuta l’educando è nel guadagnare la ferma convinzione di avere un destino ed una possibilità di autorealizzazione”; ma per fare questo occorrono degli autentici maestri, cioè persone che sappiano testimoniare in modo convincente un significato per cui valga la pena di spendere la vita, riuscendo a gustare tutto ciò che è genuinamente umano. Ed è maestro chi riconosce il valore vero delle cose seguendo qualcosa di più grande dei propri umori o dei propri capricci; maestro tanto più autorevole quanto più non semina dubbi o incertezze (magari con il pretesto di insegnare lo spirito critico!), ma testimonia con tutto il suo essere la presenza di una verità più grande di cui egli stesso si è fatto discepolo.