La tragedia della coca
Fuori del Coro | n. 38-2005
Ogni anno, all’approssimarsi del Natale, ritorna il tormentone dei regali con le inevitabili discussioni sul consumismo: Natale ricco o Natale povero, sobrietà o spreco, regali utili o inutili, e via dicendo. Ma perché farsi regali a Natale? In fondo, ciò che non si mette più a tema è perché sia bello fare e ricevere regali, ma ancor di più cosa c’entri ancora il Natale con i doni dopo che si è superata la soglia magica dell’infanzia in cui si attendeva Gesù Bambino.
Il dono è per sua natura gratuito, senza aspettative di essere ricambiato, senza calcoli sul valore venale, senza misura rispetto alle attese; perciò non è fatto consumistico in sé, ma lo diventa solo quando diventa desiderio di “competere” con chi lo riceverà. Il dono è, per definizione, l’inatteso, l’imprevedibile, l’inaudito, non nel senso dello stravagante ma nella prospettiva di evocare il mistero della vita che è per definizione “grazia” impossibile da produrre da sola. Il dono è il segno della relazione di affetto, amicizia, stima e vuole ricordare l’altro in modo non utilitaristico o mercantilistico, ma solo per il volto ed il cuore che ha. Il dono colma un’attesa ma non suscita una pretesa, è il termine di una segreta speranza, ma stupisce perché poteva anche non giungere. Il dono sorprende, ma non deve umiliare o mettere in soggezione per l’impossibilità di ricambiarlo; stupisce ma non deve schiacciare perché manifesta la logica creaturale per cui ognuno riceve tutto dalla vita (in termini di doti, capacità, talenti) senza poter completamente restituire quanto ha ricevuto.
Il dono è perciò naturale ed insieme inatteso come fattore importante nella vita di ogni uomo, per il fatto stesso di essere dono prima che per il suo intrinseco valore commerciale: se qualcuno dona qualcosa, significa che il rapporto tra i due è solido, merita di essere ricordato, crea un gesto che distingue l’alleanza reciproca da qualunque altro nesso strumentale; per questo il dono lega l’amante all’amata, i genitori ai figli, l’amico all’amico in una partecipazione alla fonte gratuita dell’Essere che nessuno possiede mai totalmente ma che a tutti si comunica liberamente.
Ma, paradossalmente, più si regala con dovizia e sprechi, meno ci si dona realmente all’altro; e questo forse perché si dimentica che la ragione più profonda del dono (che lo rende importante e significativo) è la festa cui esso si collega in modo inesauribile: è la festa a giustificare la sorpresa del dono, mentre la nostra cultura ha omologato i giorni feriali ai giorni festivi, rendendo troppo ricchi i primi e troppo poveri e grigi i secondi. Così il Natale è diventata una festa tra le altre, non più la gioiosa certezza dell’inizio nuovo per la storia dell’umanità; i compleanni sono diventati feste anagrafiche e non più momenti per ringraziare di essere nati; gli onomastici non ricordano nemmeno più il senso del nome che si porta. Ma quando è smarrito il valore di ringraziamento contenuto nella festa, si perde anche il gusto di fare regali e la gioia di riceverli.
È per questo che il Natale diventa consumistico: è rimasto l’involucro un po’ zuccheroso, ma si è perduto il “cuore” della festa per cui da secoli ci si scambia i regali; si è lasciato il rito dei doni, ma sembra scomparsa la logica del dono del proprio reciproco affetto, mantenendo la ripetizione stanca della liturgia nostalgica (che l’affanno rende alienante) di doversi per forza regalare qualcosa senza sapere perché. Perciò occorre riscoprire la bellezza del dono collegandola alla festa cui si riferisce, preoccupandosi di meno del che cosa regalare e ritrovando di più il piacere di ricordare i volti più cari: questo rinnoverà inaspettatamente anche la sorpresa dei doni della gioia e della rinascita.