In nome del padre
Fuori del Coro | n. 39-1998
Qualche settimana fa Eugenio Scalfari, parlando dei giovani d’oggi, li ha descritti come un campione umano privo di tratti distintivi e di grandi valori condivisi, una specie di “generazione invisibile”, pragmatica e conformista, di cui è difficile tracciare un profilo; negli stessi giorni Mario Monti ha invitato i giovani ad uno “sciopero generazionale” contro la società degli adulti che, per difendere i suoi privilegi, taglia le gambe agli adulti di domani. Dunque i giovani fanno problema, ma è naturale pensare che quel che non va in loro dipenda anche dagli adulti, sino a concludere che c’è del vero nella rivolta contro i padri, se un noto settimanale introduce un’inchiesta sulla condizione giovanile con il provocatorio titolo “padre nostro che sei il nemico”.
Però, stando alle testimonianze dei giovani intervistati, sembra che alla lotta contro il padre come tradizionale avversario da combattere per la conquista della libertà, si vada progressivamente sostituendo un diffuso senso di inutilità della figura paterna, divenuta priva di ogni attrattiva per la sua scarsa incidenza nella vita dei figli. Dopo una cultura della morte del padre, si va perciò affermando il sentimento dell’assenza del padre, diventato sempre più subalterno ad altri surrogati della paternità. L’esito di quest’assenza (e dobbiamo ricordare che i padri di oggi sono anagraficamente i figli della ribellione del ’68 che ha fatto dell’eliminazione di ogni autorità il suo simbolo) è quella debolezza generazionale di cui si diceva sopra: i giovani di oggi pagano, infatti, il loro essere orfani con un’incertezza sull’orizzonte di valore cui dedicare la propria esistenza, sino alla sottile disperazione causata dalla percezione di un non senso, che li rende fragili ed indifesi.
Ciò è naturale: senza una riscoperta chiara del suo essere figlio, l’uomo stenta ad orientarsi nella vita, non trova sicurezza nell’affondare i suoi piedi nella realtà, non riesce a trovare una direzione sicura al proprio cammino. Il padre rappresenta, infatti, la certezza non solo della legge, ma soprattutto di un senso sicuro delle cose radicato nell’origine dell’esistenza. Certamente questo non richiede padri apprensivi ed avvolgenti così da spegnere la libertà del figlio, né padri così permissivi (spesso quasi inesistenti) da lasciar semplicemente fare ai figli quello che vogliono: il padre è autorevole perché lui stesso riconosce qualcosa di più grande che lo costituisce, ossia un senso della vita, che lo rende responsabile di guidare il figlio sino alla maturità.
Di fronte all’appannarsi della figura paterna è quanto mai necessario oggi riprendere un grande patto generazionale tra padri e figli, superando ogni tentazione di autosufficienza e riscoprendo quanto i figli abbiano bisogno dei padri e viceversa, ad immagine di quanto raccontato nella nota parabola evangelica del figliol prodigo, meglio definita del Padre misericordioso. In essa troviamo sia l’istintiva ribellione del figlio che pensa di poter fare a meno della guida del padre, sia il suo realistico sentimento di nostalgia che lo induce al ritorno; ma al tempo stesso troviamo la figura di un padre attento e giusto, che lascia sbagliare il figlio, per riaccoglierlo prontamente e senza condizioni nella misericordia e nel perdono, obbedendo in questo alla sua originaria vocazione di padre.
Dobbiamo un po’ tutti imparare da queste figure simboliche: si può essere buoni padri solo se si riconosce di essere anche al tempo stesso dei figli, e si vive la figliolanza solo accettando di essere accolti da chi ci è padre. L’invito è dunque a rispondere alla domanda che i giovani fanno di avere dei buoni padri, perché di loro hanno bisogno per entrare degnamente nell’esistenza.