I malanni del Papa
Fuori del Coro | n. 21-2002
“La sofferenza è una chiamata a manifestare la grandezza morale dell’uomo, la sua maturità spirituale”: in queste parole, scritte da Giovanni Paolo II nel 1984 nella Lettera apostolica Salvifici Doloris sul senso cristiano della sofferenza (a pochi anni dall’attentato e dalla prima esperienza di ricovero ospedaliero), sta la vera chiave di lettura del senso di quell’aggravarsi della salute del Papa che ha riaperto il dibattito sulle sue possibili dimissioni. Il Papa sta male ed è sotto gli occhi di tutti, e potrebbe sembrare quasi masochistica la straordinaria caparbietà con cui egli continua la sua missione senza concedersi ciò di cui qualunque anziano, nelle sue condizioni, avrebbe pieno diritto: perché non gustare un meritatissimo riposo? Perché sottoporsi all’umiliazione di mostrare al mondo la vergogna della propria situazione di declino e di una vecchiaia senza onore? Perché non accettare di ritirarsi nel silenzio lasciando spazio a più giovani energie?
Il mistero della sofferenza di Karol Wojtyla è tutto racchiuso nella certezza del messaggio di cui è responsabile e nell’indomita volontà di testimoniare qualcosa di cui non ha piena disponibilità, come ha scritto ancora nella Salvifici Doloris: “allorchè questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali”. Ecco il punto: la malattia e la vecchiaia non sono una vergogna da nascondere, un’onta da celare, una contraddizione da dimenticare; sono un segno (uno dei più esaltanti e mortificanti insieme) della condizione di ogni uomo. E l’essere Papa non esonera dall’affrontare il peso degli anni o il tremore del Parkinson, semplicemente li mette sotto gli occhi di tutti e li amplifica perché ricordano che a nessuno è dato sfuggire la sofferenza; anzi per l’uomo Wojtyla anche gli ultimi frammenti dell’umano diventano occasione per fare memoria di Cristo, e la sua stessa persona, prima ancora delle parole o dei gesti rituali, diventa rivelazione del Mistero del positivo che la Redenzione restituisce ad ogni età e condizione della vita. Non si tratta di avere un fisico eccezionale o una resistenza fuori del comune, basta accettare di essere al proprio posto confidando in Dio, ed ecco che tutto si trasforma: persino l’ignominia diventa gloriosa, e il disonore del corpo incurvato del Papa si trasforma in segno di speranza oltre ogni apparenza.
Così diventa ancora più vero quanto il Papa scriveva nel 1984: “la sofferenza appartiene alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti nei quali l’uomo viene in un certo senso destinato a superare se stesso e viene a ciò chiamato in modo misterioso”, nel senso che se nessuna pena sembra essere risparmiata all’uomo Wojtyla, proprio il suo modo di vivere fa risplendere un’eccezionale statura umana: non l’eroismo fine a se stesso, ma la santità come accettazione gioiosa della volontà di Dio.
Per questo suonano francamente fastidiosi i commenti di chi discetta sugli scenari di possibili dimissioni. Non si tratta di sapere cosa accadrebbe se un giorno il Papa non ce la facesse più a parlare o a viaggiare, ma semmai c’è da chiedersi cosa Dio vuole insegnare alla Chiesa e al mondo con una figura così scolpita nella sofferenza. Un Papa disabilitato dalle sue funzioni mediatiche o di rappresentanza rimane comunque Papa, cioè padre (come un papà rimane tale per i suoi figli anche se dovesse vivere una lunga agonia prima di morire). Perciò non ha senso preoccuparci di qualcosa di cui si occuperà il buon Dio meglio di quanto sappiano fare i nostri suggerimenti. A noi resta solo l’augurio: ad multos annos, Santità.