Giorni di riflessione
Fuori del Coro | n. 17-2009
In tempi di diffusa secolarizzazione e di perdita del senso religioso che ricorda il valore dell’Eternità, ha ancora senso celebrare la Festa di tutti i Santi e commemorare la memoria dei nostri defunti? Parrebbe solo una consuetudine tradizionale, che qualcuno tenta di sostituire con la surrettizia festa di Halloween, fatta di scanzonata e macabra presenza di zucche e scherzi infantili, ma c’è qualcosa di queste feste della Tradizione che non si può cancellare.
Infatti, le solennità dei Santi e dei Morti ricordano con evidenza di segni che il destino cui tutti siamo chiamati non è legato al mito dell’eterna giovinezza, della vita fatta di salute e di carriera, della autorealizzazione solo terrena, perché l’uomo vale solo in quanto si misura sulla sua destinazione ultima, in cui la morte o è apertura alla gloriosa pienezza del significato (che i cristiani identificano nella Santità), oppure finisce nel Nulla dell’assurdo. Non ci sono alternative realistiche alla morte (troppo spesso resa insignificante dalla spettacolarizzazione o ridotta a fatto scientificamente misurabile) e nulla può alimentare l’illusione dell’immortalità, né la presunzione di rimanere nel ricordo imperituro di chi verrà dopo di noi. Se non ci fosse un tempo ed un luogo della memoria, tutti saremmo destinati a finire completamente nel nulla, sia come oblio sia, più radicalmente, come annientamento del nostro essere.
Provvidamente la Chiesa unisce, invece, la memoria della santità (cioè dell’umanità compiutamente “riuscita”) con la “pietas” del culto dei propri defunti, perché la morte non è disperante solo se apre al ricongiungimento con la propria origine creaturale, che i Santi hanno ritrovato dedicando l’esistenza ad amare Dio sopra ogni cosa.
La festività di Ognissanti diviene così il compleanno di tutti, non solo perché celebra il nome di quanti sono stati elevati agli onori degli altari, ma poiché ricorda a ciascuno che la sua nascita è già attesa da Dio per il ritorno alla dimora del Padre: è la festa del nome con cui si è chiamati all’esistenza, e per questo festa che rende certi che neppure la morte cancella il valore di ogni vita (persino di quella non nata o di quella solcata solo dalla sofferenza o dalla malattia). Non è dunque l’esaltazione di una specie di superomismo religioso di uomini virtuosi oltre ogni misura, ma ricordo di persone (e in fondo tutti possiamo diventarlo) che si sono fidate di Dio, sino a fare di Lui l’unico amore dell’esistenza sino alla morte. Per questo il 2 novembre diventa indisgiungibilmente unito alla festa dei Santi perché ripropone la certezza che anche la morte riguarda la vita.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che si tratta allora di festività solo cattoliche che non meritano il ricordo della cultura laica, ma guai a dimenticare che il culto dei morti appartiene all’origine stessa di ogni civiltà, in quanto disegna il senso di una storia cui si appartiene; così che portare dei fiori al cimitero non è solo gesto di affetto o di memoria verso chi ci ha lasciato, bensì esprime il riconoscimento che non veniamo dal Nulla ma siamo figli di una genealogia che ci precede. E in una società che pare voler sradicare da tutto per immergere in un illusorio “eterno presente”, è essenziale ritrovare questa appartenenza per non smarrire la propria identità. Perciò, altro che Halloween: questi giorni sono l’occasione per ricordare chi siamo davvero e quale è il nostro destino.