Generazione sandwich
Fuori del Coro | n. 13-1998
I sociologi la chiamano “sandwich generation”, ma potrebbe essere più semplicemente definita la generazione di mezzo, quella costituita da uomini e donne tra i quaranta e i cinquant’anni. Si tratta della generazione portante dell’ossatura della società, poiché identifica quei soggetti che sono, contemporaneamente, genitori di figli che non vogliono crescere e figli di genitori sempre più longevi. Anagraficamente sono i “figli del ’68”, quelli che diedero vita alla contestazione globale del sistema per riuscire ad affermare la loro vera identità, e che oggi sono paradossalmente costretti ad occuparsi di tutti tranne che di sé, come risulta da un’interessante inchiesta svolta dal CENSIS per conto del settimanale Liberal. Ne emerge l’immagine di una generazione straordinariamente attiva, in perenne corsa contro il tempo, attenta al dibattito culturale e politico, un poco sognatrice, amante delle utopie, che si riscopre però anche dotata di una impensata pietas verso i genitori e di una cura verso i piccoli, che sembrano contrastare con il desiderio di autonomia affannosamente cercato nei ruggenti anni sessantottini.
A questa fascia d’età appartiene circa un quinto degli italiani, anche se di loro si parla poco: se si accarezza il mondo giovanile per sfruttarne le potenzialità di vero business o ci si preoccupa degli anziani per promuovere l’industria del tempo libero, sembra superfluo cercare un ruolo ed un volto per questa generazione ancora in “carriera”, che appare sicura di sé e solidamente ancorata a modelli di conquista del successo. Eppure proprio questi giovani di ieri sembrano sperduti, in difficoltà, dovendo fare i conti con gli esiti della rivoluzione antropologica degli anni ’70, che li ha privati di sicuri punti di riferimento. Devono, infatti, educare i figli senza il bagaglio dei valori di cui erano carichi i genitori di allora (che appunto venivano contestati), e al tempo stesso avvertono l’obbligo morale di curare i vecchi di oggi senza averne condiviso le scelte di vita. Il desiderio di protagonismo, tipico della maturità delle energie psicofisiche, si scontra così con l’incertezza di questo delicato passaggio di civiltà, in cui l’antico non è ancora stato sostituito dalla certezza del nuovo, e il recupero dei rapporti parentali sembra più dettato dalla necessità contingente che dal convinto riconoscimento di una comune storia familiare. Anche quelle che venivano considerate conquiste di un’emancipazione personale (divorzio, aborto, femminismo) o i sogni utopici della giovinezza, si rivelano incapaci a sanare questa crisi di identità generazionale: dopo aver lottato per affermare l’io contro l’invadenza dei genitori, oggi ci si deve sottomettere necessariamente ad un pragmatismo di corto respiro, accompagnato dalla paura di proporre ai propri figli ideali veramente grandi. Così la responsabilità verso i piccoli e verso gli anziani diventa opprimente, in un’età in cui non si è più né così giovani da presumersi onnipotenti, né così avanti negli anni da potersi ritirare in buon ordine.
“Essere adulti significa essere soli”, scriveva Jean Rostand, e questo sembra essere il destino degli adulti di oggi, dopo che si sono guadagnati la maturità a prezzo del rifiuto di ciò che li ha preceduti. Ma come si può, da soli, reggere la responsabilità di cerniera intergenerazionale? Abbandonato a sé, l’uomo “di mezzo” diventa solo “uomo sandwich”, schiacciato inesorabilmente tra l’incapacità di parlare ai giovani e la fatica di curare i vecchi. Come uscire da questa frustrazione? Solo l’esperienza di un popolo può dare senso a questo straordinario momento intermedio della vita. Solo dentro una comunità che vive ognuno riacquista il valore della generazione in cui si trova e può costruire qualcosa di positivo.