Fidarsi della vita
Fuori del Coro | n. 06-2005
Ci si accorge di avere un corpo quando si è sorpresi da qualche malanno o quando il fisico pare non rispondere adeguatamente agli impulsi della mente; si prova il limite corporeo quando la malattia provoca sintomi dolorosi e ci si accorge che il movimento è rallentato o addirittura impedito; si inizia a prendere coscienza dell’unità psicosomatica che ogni persona è in sé nel nesso inscindibile tra anima e corpo quando si avverte che la parola vita non richiama ad un’idea esistenziale astratta, ma accetta la sfida di “portare” il proprio corpo dentro la quotidiana battaglia che l’intelligenza e la libertà ingaggiano rispondendo alla vocazione personale ad esistere.
Ce ne sta dando straordinaria testimonianza il Papa in questi giorni con la sua malattia, di cui è clinicamente spiegabile e prevedibile tutto, tranne quell’indomita fiducia nella vita (intesa come compimento del significato per cui ha scelto di spenderla), che diventa testimonianza sia di come il fisico condizioni l’io, sia di quanto la libertà possa andare oltre anche i limiti oggettivi della malattia. Qualcuno ha scritto che non c’è nulla di sacrale nella sintomatologia che affligge Giovanni Paolo II rendendolo simile più ad un qualunque malato che al Vicario di Cristo, eppure proprio il suo corpo piegato e dolente manifesta una fede nella vita che fa pensare. Nella recente Giornata della vita la Chiesa italiana ha lanciato lo slogan “fidarsi della vita”, indicando la fiducia nell’esistenza come via per costruire una vera civiltà, nella certezza che ad ognuno è dato un compito che rende sacro il suo esserci. La vita, ogni vita, vale in sé perché scaturisce da qualcosa che l’uomo non potrà mai produrre in proprio, ma emerge dalla dipendenza dal Mistero; per questo è più grande fidarsi che interpretare, è meglio stupirsi che pretendere di dominare la vita, è più giusto guardare che discorrere sull’esistenza. Avere fiducia nella vita perché essa non è opera delle mani dell’uomo, anche quando la nascita è inaspettata e problematica o la morte sembra essere l’unica soluzione alla pena, costituisce il richiamo che proviene dal “vivere” il proprio il corpo.
Se questo è vero, appare improvvida la pretesa di intervenire sui temi delicati della bioetica con l’ambiguo strumento referendario: come si può decidere a maggioranza cosa è lecito fare quando si parla dell’origine della vita? Oppure quale mentalità esprimono certi dibattiti sull’embrione in cui si va a disquisire contro l’evidenza che in quell’ovulo femminile fecondato c’è già tutta la corporeità con cui l’individuo affronterà le circostanze della sua esistenza? O come può un potere intervenire a decretare la fine della sofferenza inducendo la morte? O come si può trattare la malattia come fosse un fatto solo tecnico?
Sono domande che risuonano quando si percepisce che il corpo non è l’involucro dell’anima (come vorrebbe un platonismo dualista) o l’accessorio con cui l’intelligenza comunica attraverso la libertà, ma è il “segno” dell’io nella sua storicità e nel suo limite esistenziale. Per questo la sacralità della vita fisica deve essere il centro di una civiltà a misura dell’uomo, il rispetto del malato la vera molla del progresso medico, la tutela dell’individuo sin dal concepimento lo scopo di ogni intervento, l’accompagnamento della sofferenza e della morte il compito dell’assistenza e dell’umana solidarietà.
Ed è ancora il Papa a consegnare al mondo la testimonianza di una fiducia nella vita che valica ogni limite di ragionevole sopportazione: ci si può fidare del proprio corpo, anche se non risponde più agli impulsi elementari, perché in esso è presente il mistero dell’io “a immagine” del Mistero più grande di Dio, un io che si fida del vero Signore della vita.