Feste civili e speranze del popolo
Fuori del Coro | n. 16-2007
Feste come il 25 aprile ed il Primo maggio evocavano un tempo la memoria di eventi o situazioni capaci di accendere passioni politiche e suscitare speranze e progettualità, a differenza di oggi in cui pare che si siano ridotte solo ad occasione di “ponti” primaverili per sfuggire il grigiore quotidiano.
Senza entrare nel merito di cosa queste due feste civili simboleggino nella tradizione italiana, c’è da osservare che un calo di tensione ideale si nota in tutta la vita sociale e che le formazioni politiche e sindacali sempre meno interpretano il vissuto e le aspettative di quello che è un “popolo”. Certamente il richiamo ai gravi infortuni sul lavoro (le “morti bianche”) è significativo ma non riesce a far recuperare il senso del lavoro come momento di affermazione della dignità dell’uomo che lavora; così come il tentativo di riconciliare le parti avverse nella Festa della Liberazione Nazionale non riesce a dire alle giovani generazioni cosa significhi realmente libertà e identità per il popolo italiano. Il fatto è che un popolo pare non esserci più ed una speranza comune su cui costruire un’immagine convincente di futuro francamente non si vede; per cui i momenti di piazza che potevano essere occasione di aggregazione e di confronto si stanno trasformando in stanche liturgie laiche incapaci di suscitare emozioni e passioni vere.
D’altra parte un popolo è tale quando riconosce di avere una cultura comune, un linguaggio condiviso, un destino da percorrere insieme, ed è proprio questa comune appartenenza che sembra essere stata definitivamente uccisa dall’individualismo imperante. Senza un’appartenenza forte non c’è però futuro praticabile, manca un ideale da perseguire e tutto ristagna nella rassegnazione e nelle aspettative di piccolo cabotaggio. Soprattutto viene meno la speranza come molla di una nuova creatività e come motore di iniziative, anche a livello economico, in grado di dare alle nuove generazioni un modello di operosità paragonabile al desiderio di ricostruzione e di giustizia sociale del dopo-guerra.
Ma la speranza non è un sentimento labile o illusorio: nasce e cresce solo dentro una cultura della solidarietà e del riconoscimento del Bene comune, superando gli egoismi di parte per indicare una meta a tutti. Dove trovare questa speranza? Non certo nelle ideologie, date per morte ma forse più nefaste che mai nel riproporre nostalgici ed impossibili ritorni al passato (magari anche quello violento del terrorismo!); non nel denaro, che sembra proprio non circolare con tanta facilità nelle tasche della maggior parte delle famiglie italiane; non nella ricerca di progresso o di successo, che rimangono per quasi tutti solo un lontano miraggio. Forse l’unica strada è, invece, di rimettere al centro dell’attenzione l’io con tutte le sue domande ed esigenze originarie, ritrovando che ciò che unisce al proprio collega di lavoro o al vicino è solo la domanda di una felicità più stabile e duratura che abbracci tutte le esigenze umane.
Allora si deve fare festa e ritrovarsi nelle piazze non per gridare slogan di protesta, per fischiare, per sentirsi importanti, ma per riconoscere che l’umanità accomuna davvero tutti (se non altro per la somiglianza dei problemi quotidiani che accompagnano proprio tutti), e cercare di ricostruire momenti di cultura in cui riconoscersi. Pensiamo, ad esempio, alla bellezza che tanto manca nella vita quotidiana, o all’esigenza di poter parlare tra persone per trovare delle certezze sulla vita: se la festa diventasse occasione di incontro (come avviene per le feste religiose), certamente la società ne guadagnerebbe. La speranza rinasce, infatti, quando si comincia a guardare l’altro come un compagno di cammino e non come un avversario.