A scuola che bello
Fuori del Coro | n. 13-2009
Inizia un nuovo anno scolastico, ricco di novità ed anche di tensioni, e si rinnovano gli eterni problemi della scuola: le preoccupazioni dei genitori per la ripresa di un’avventura educativa che sperano in consonanza con i loro desideri (ma quando in Italia giungerà la parificazione tra la scuola statale e quella impropriamente detta privata?), la trepidazione degli scolari che si sentono strappati dalla vacanza e ributtati in una mole di impegni di cui spesso non comprendono l’utilità e le ragioni, il malcontento ed il senso di frustrazione di insegnanti perennemente umiliati e da quest’anno spesso senza più lavoro in conseguenza di un lungo precariato. Insomma, un inizio che promette novità ma pare destinato ad essere riassorbito nelle delusioni di sempre! Eppure c’è nel primo giorno di scuola un fascino che non può essere tradito, soprattutto per gli studenti di ogni ordine e grado, che è contenuto nella promessa di conoscenza e nella speranza di crescita di cui ognuno vuole essere protagonista. Dal momento che, se esiste un luogo in cui nulla è scontato ma tutto è imprevedibilmente nuovo, questo è proprio la scuola. E quando penso alla scuola penso all’incontro irripetibile ed unico tra la storia del ragazzo ed il volto del suo insegnante: da un lato c’è la domanda di felicità e di auto-realizzazione propria della giovinezza dell’allievo che ha bisogno di chi si occupi di lui, dall’altra c’è la missione (forse si dovrebbe dire l’arte) di chi è chiamato ad essere non solo la cinghia di trasmissione di un sapere già codificato, ma piuttosto il testimone della passione e del gusto di comunicare i contenuti della conoscenza che permette di possedere più in profondità tutto ciò che esiste. La scuola è sempre l’incontro tra due libertà, persino quando l’insegnante pare travolgere l’alunno con le interrogazioni o con interventi disciplinari pesanti, persino quando lo studente sembra svogliatamente snobbare ogni proposta didattica. Perché insegnare ed imparare sono eventi sempre relazionali legati all’incontro: infatti, insegnare è l’atto con cui si lascia un segno nella coscienza di chi sta crescendo (chi non ricorda almeno un docente che lo abbia affascinato ed aiutato ad affrontare la vita?), così come l’imparare è il processo di acquisizione non tanto di dati o di nozioni ma piuttosto il lasciarsi plasmare da qualcosa che entra nell’anima e le dà forma. E tutto avviene in quel famoso “dialogo educativo”, tanto spesso evocato formalisticamente nei tecnicismi del linguaggio scolastichese, che costituisce il cuore di quel processo generativo dell’io per cui ogni persona cresce verso l’età adulta.
Perciò andare a scuola è bello, poiché apre l’umanità al suo destino di conoscenza ed insegna ad amare il segreto e la profondità del significato delle cose.
Certo, può essere forse impopolare dire che la scuola è bella, ma è vero se non si rinuncia a farla essere quella “dimora educativa” che gli allievi ricercano per lasciarsi ”segnare” dalla verità di una relazione con chi comunica loro qualcosa perché ama il loro destino. E la scuola è bella se non diventa arido parcheggio per dei piccoli uomini in attesa di diventare grandi, ma se rimane intessuta dalla curiosità della domanda e della testimonianza della risposta, dentro una storia che lega le diverse età della vita in una continuità “di generazione in generazione”. A scuola è bello! Che sia così per tutti, sperimentando la ricchezza dell’orizzonte conoscitivo in una stima reciproca docente-discente, visto che si impara solo ciò che è amato e fatto amare.